Maria Elena Colombo: musei, la questione non è tecnologica ma culturale
Maria Elena Colombo si è laureata in Conservazione dei Beni Culturali e ha conseguito un Master in Museologia, museografia e gestione dei beni culturali. Si è occupata per un decennio di comunicazione in contesti digitali; è stata redattrice del progetto “Un museo al mese” collaborazione fra la testata “Focus Junior” e il MiBACT. Ha lavorato come Digital Media Curator e ufficio stampa per il Museo Diocesano di Milano dal 2011 al 2015 e ha collaborato con la casa museo Bagatti Valsecchi. Insegna Multimedialità per i beni culturali presso l’Accademia di Brera, al Master in Museologia, museografia e gestione culturale e alla Scuola di Specializzazione in Archeologia presso l’Università Cattolica di Milano sul tema museologia e comunicazione, con focus sul digitale.
Il primo capitolo del suo libro Musei e cultura digitale si intitola “Una tassonomia del digitale: di che cosa parliamo quando parliamo di digitale e musei”. In sintesi, oggi a che punto siamo a proposito di musei e nuove tecnologie?
L’intento di quel capitolo era da un lato provare a fare chiarezza nel gran calderone di strumenti che finiscono sotto l’unico cappello del digitale, dall’altro -come conseguenza- perimetrare il discorso che andavo ad affrontare nel resto dell’indagine. La tassonomia cercava di evidenziare come alla voce musei e digitale vadano ascritti anche strumenti diagnostici e di conservazione, di archiviazione e documentazione, anche dell’immateriale, o anche tout court l’arte digitale, a partire dalla New Media Art. Un terzo aspetto, quello al quale mi dedico, è quello del digitale usato come strumento di comunicazione, valorizzazione, partecipazione, ascolto, sviluppo. Sposterei un po’ l’attenzione, se possiamo, dalle nuove tecnologie, ai processi di integrazione degli strumenti nei musei, alle risorse allocate a questo, alle competenze, ai piani strategici. Mi sento di dire – direi di ripetere – che la questione non è in alcun modo tecnologica, ma culturale. E che culturalmente il nostro paese paga un ritardo in termini di preparazione e accoglimento della sfida, in modo serio, non di giustapposizione o copertura.
Quando parliamo di musei, ci sono due grandi versanti: il museo vero e quello virtuale. Quale dei due è più progredito? Il museo vero nella sua “virtualizzazione” (con AR e altro) o il museo virtuale nel tentativo di superare le sue criticità?
Riscontro anche in questo caso un problema di definizione. Per me “virtuale” è un mondo non esistente, creato solo digitalmente, come la vecchia Second Life, fino a Minecraft e Roblox. Se invece parliamo di dimensione di restituzione di un museo, non è virtuale, quando il museo, l’allestimento, le opere, sono esistenti, ma digitale, che sia 3D o altro perchè replica uno spazio, un allestimento, alcune o tutte le opere, reali. E’ vero invece che dal saggio di Antinucci in poi, la ricostruzione dell’antico ad esempio, da frammenti, da pochi elementi o fonti, è si virtuale, ma normalmente ripercorre indagini filologiche. Il museo è un unico ecosistema però, esiste in più dimensioni, semplicemente.
Mi pare che quando si parla di musei virtuali, alla fine si faccia spesso riferimento a una riproposizione bidimensionale delle opere, sui siti web.
Esistono diverse esperienze: in primo luogo la digitalizzazione e condivisione delle collezioni sul sito web del museo – e non solo – come nel caso del Rijksmuseum di Amsterdam, del Metropolitan Museum di New York per citare due casi molto noti e, recentemente, anche del British Museum di Londra con grande apertura su un archivio di centinaia di migliaia di opere, con foto, informazioni, metadati. Non si tratta di riproposizione bidimensionale del museo, ma delle opere: non vi è alcun riferimento all’allestimento e/o allo spazio fisico. Invece nelle ricostruzioni a 360 gradi, come quelle di Google Arts & Culture per esempio, viene mappato e ricostruito lo spazio con le opere allestite e si consente una visita digitale in un ambiente corrispondente al reale. Non sono esperienze che io ami molto; non aggiungono quasi mai un contributo specifico alla visita, sono spesso prive di contenuti aggiuntivi e difficoltose da navigare. L’obiettivo dei due oggetti, collezione on line e visita dello spazio ricostruito in digitale, è davvero differente: il primo compie una restituzione globale delle opere, potenzialmente nutrendo le industrie creative di tutto il mondo, il secondo consente una piccola, spesso impoverita, esperienza di visita.
Oggi si parla tanto di gallerie e musei virtuali. Se andiamo a vedere i vecchi cd-rom dei musei degli anni ‘90, erano già abbastanza avanti e a volte c’erano anche delle piccole visite virtuali. In più di 20 anni siamo andati molto oltre quei modelli?
No, direi non molto. Di fatto quel medesimo strumento è proposto via web. Per questo ci pare datato, perché lo è. Se ne parla tanto perché molte istituzioni trovatesi scoperte per via della chiusura dovuta alla pandemia hanno cercato vie non fisiche di rapporto con i propri pubblici, alcune volte ricorrendo a modelli obsoleti, non legati ad una specifica strategia di audience engagement, ma dall’emergenza.
In giro si vedono varie mostre realizzate in gallerie virtuali molto schematiche. Perché non si investono grossi budget per realizzare gallerie con una grafica molto più evoluta, all’altezza dei videogame di ultima generazione?
Credo che la risposta stia nella differenza di competenze e anagrafica di chi afferisce ai due mondi, musei e giochi; è difficile scegliere di affrontare sfide come la gamification in ambito culturale, se ancora si è legati ad approcci e logiche molto tradizionali.
Quali sono gli esempi più evoluti di gallerie o di musei virtuali che le vengono in mente?
Nell’accezione che ho chiarito, che non definirei “virtuale”, citerei in Italia il Museo Egizio di Torino, che ha online la propria collezione, con licenza Creative Common e per la grande sfida che ha accettato con tutti i rischi che l’innovazione comporta l’M9 di Mestre.