Luca Traini: fin dall’antichità la storia dell’arte è piena di gallerie virtuali
Luca Traini, già insegnante di Storia e Filosofia, è scrittore e curatore d’arte. Nel 2008 inizia la sua collaborazione con la critica d’arte Debora Ferrari curando la prima antologica italiana del fotografo personale di Picasso, REFLEXions: dans les chambres de André Villers (Aosta), e rivolgendo poi l’attenzione al nuovo mondo del medium videoludico. Frutto di questa indagine è la mostra dell’anno successivo, The Art of Games (Aosta), che mette in connessione videogame e beni culturali.
Con NEOLUDICA Art is a Game 2011-1966 questi rivoluzionari orizzonti estetici approdano in una nuova veste espositiva alla 54.Biennale di Venezia. Ha pubblicato con Skira Editore Arte e Videogames – Neoludica (2011) e Assassin’s Creed Art(R)Evolution (2012). Sempre con Debora Ferrari dirige la casa editrice TraRari TIPI, è direttore artistico del Padiglione Arte della Milan Games Week, ha curato mostre per Ubisoft Italia su Assassin’s Creed a Lucca Comics&Games, esposizioni di arte moderna e contemporanea – Nel segno di Lucio Fontana (2016), Come la luce: dai Macchiaioli allo Spazialismo e Guttuso ritrovato, entrambe del 2019 – e dal 2020 collabora con API Srl con cui ha realizzato gallerie virtuali per le opere degli artisti di Neoludica a Rome Video Game Lab e Milan Games Week.
Il fenomeno delle gallerie virtuali cambierà profondamente il modo di concepire le mostre o è una moda passeggera?
Lo ha già cambiato così come è cambiato continuamente il nostro modo di concepire le mostre da quando è nato il museo moderno con la Rivoluzione Francese. È da allora che il popolo sovrano ha conseguito il diritto di vedere quell’arte con la “quieta grandezza” e il punto di vista di un re e non di sfuggita, curvo a spazzare il pavimento. Una fruizione democratica che è stata il punto di partenza per tutta una serie di ampliamenti di prospettiva. La scolarizzazione di massa prima e poi la definizione come disciplina della storia dell’arte con il suo inserimento nei piani di studio. Quindi tutte le progressive connessioni dell’arte tradizionale con i nuovi media – la fotografia, i libri con foto, il cinema, la televisione, gli universi in espansione dallo schermo di un computer – con le reciproche interazioni e ispirazioni che hanno portato a rivoluzionare in senso dinamico la pura dimensione contemplativa (che comunque “pura” non è mai stata). Insomma si è entrati nei musei sempre più preparati e pieni di sempre nuove aspettative dettate da un immaginario anch’esso in continuo mutamento. Se vedere un quadro dopo aver conosciuto solo il teatro è diverso dal prenderlo in considerazione dopo essere stati al cinema, lo è tanto più oggi quando si sceglie dove viaggiare in Rete, si è interagito nei social o si è stati protagonisti di un videogioco. Lo spettatore è diventato sempre più protagonista, o meglio, co-protagonista di ciò che vede (così come sono diventate protagoniste le strutture dei nostri musei, esse stesse opere d’arte contemporanea) e le gallerie virtuali, il cui sviluppo è stato solo accelerato dalla pandemia, sono quindi il medium principale – nuovo contenitore e nuovo soggetto estetico – per soddisfare, in first-person perspective, questa nuova Sindrome di Stendhal informatica. Che deve in ogni caso essere anche informata e resa consapevole delle visioni precedenti.
Se guardiamo i cd-rom degli anni ‘90 con le visite virtuali dei grandi musei e certe visite virtuali di oggi, sembra che non si siano fatti proprio dei passi da gigante.
E’ vero in diversi casi. Il tradizionalismo non è un fenomeno solo dei vecchi media, anzi, certe istituzioni (e non parlo solo di quelle pubbliche) sono le prime a sclerotizzare le novità proprio perché contemplate in ritardo, quando diventano indispensabili. Da ex insegnante penso a quanto c’è voluto per far accettare gli audiovisivi a fronte del culto del libro (dimenticando o ignorando quanta fatica avesse fatto in origine il libro a essere accettato come strumento di conoscenza). Più di recente basta pensare a quei siti internet ormai vecchi di vent’anni che faticano ancora a essere archiviati come (costosissimi) fossili. In Italia poi sono forti due opposti atteggiamenti fideistici: il culto – il culto non lo studio – della tradizione e il nuovismo a tutti i costi. Quando invece si riesce a trovare una sintesi ecco che allora si può andare più avanti degli altri (a loro volta oggetto di un altro culto molto italiano: se qualcosa viene da un certo estero è meglio). E ogni riconoscimento che tarda rischia di farci ripiombare nello stantio circolo vizioso del fatalismo.
Quali ingredienti sono necessari per un museo o una galleria virtuale veramente innovativi?
Nelle tue interviste ho notato tutta una serie di suggerimenti e realizzazioni molto interessanti. Di mio posso aggiungere che, facendo noi ancora parte (e lo saremo a lungo), di una civiltà che, dalla creazione di porte e finestre in mattoni o pietre squadrate allo schermo del computer, è ancora un sogno ad angolo retto (e qui rimando a due miei scritti, il primo pubblicato su “Neoludica”, Skira, 2011, e il suo approfondimento, “Contemplare la distrazione”), il passato, anzi, i diversi passati riletti in modo approfondito e in un’ottica aumentata in senso multiculturale e multimediale saranno la principale fonte d’ispirazione. Il tempo stabilirà poi le sue forme, ma siamo ancora in piena metamorfosi. Io e Debora Ferrari, cioè i creatori di Neoludica, stiamo preparando un libro su questo argomento per la nostra casa editrice TraRari TIPI. Il problema di fondo è quello che Debora ha definito come “decollocazione” dell’opera d’arte. Infatti, se escludiamo l’architettura, un’opera di norma prende forma in un luogo e viene trasferita in un altro. E come ogni nuova arte non elimina le precedenti così ogni loro nuova ambientazione. Da più di due secoli lo spazio di destinazione finale per eccellenza è il museo pubblico, dimensione estetica che si è venuta costruendo grazie alla progressiva affermazione in campo culturale, sociale e politico dell’etica democratica dalla Rivoluzione Francese in poi. Una dimensione in continuo mutamento all’insegna dello sviluppo e del progresso (sia ben chiaro che non nutro alcun rimpianto per il “passato”: i passati sono una cosa viva). Solo per fare un esempio: dalle quadrerie del ‘700 siamo passati alla privacy del quadro col suo spazio vitale ben separato dagli altri (mettendoci di fronte all’opera come il pittore quando l’ha eseguita) per tornare alle nuove quadrerie delle Immagini di Google. Prima si imponeva una lettura collettiva immediata, poi si è concessa una riflessione singola e ora viene proposta d’impatto una nuova storia d’insieme. È una delle tante scelte formali – e naturalmente di contenuto – che una galleria virtuale deve prendere in considerazione. Ma non è un dubbio da risolvere calato oggi dal cielo. Tutta la storia dell’arte, specie quella antica, è piena di gallerie virtuali alla ricerca dell’originale. Dalle copie romane dell’arte greca alle descrizioni di opere perdute per mezzo di altri media come la scrittura (quanto dobbiamo in questo caso a Plinio il Vecchio o a Filostrato Maggiore). C’è da chiedersi poi oggi cosa si veda concretamente al Louvre quando si passa davanti a un’icona come la Gioconda. Praticamente nulla. Quei pochi minuti in mezzo al caos vanno per forza di cose approfonditi con altri media o con una galleria virtuale immersiva e aumentata. Perché anche questa è un’altra scommessa per le gallerie virtuali: aumentare in quantità e qualità la durata della visione. Tenendo in considerazione le nuove esigenze dello spettatore diventato protagonista della visita, del viaggio così come i punti di vista dell’artista, della/e società e del/dei pubblico/i che ne ha/hanno fruito. E poi libero spazio alla fantasia perché parliamo di arte che parla di arte.
La strada per un museo virtuale in grado di competere con quelli reali è la grafica da videogame di ultima generazione?
È la principale. Di questo hanno già detto bene Debora Ferrari, come inquadramento generale, e Biancamaria Mori di API Srl, in dettaglio, nelle tue interviste. D’altro canto Neoludica collabora con API e le mostre a Rome Video Game Labhttps://www.labiennale.org/it e a Milan Games Week nel 2020 possono fornire un esempio a questo proposito. Io e Debora abbiamo definito dal 2008 le Game Art come le nuove arti del XXI secolo, con tanto di mostra alla Biennale di Venezia nel 2011, anche perché l’immaginario dominante oggi, specie a livello giovanile, è questo. C’è da precisare che quando parliamo di videogame di ultima generazione non dobbiamo considerare solo i grandi titoli ma anche quella galassia di videogiochi indipendenti che anche se non si definiscono avanguardie come nel ‘900 lo sono nei fatti. Superando lo stereotipo ancora diffuso riguardo al termine “gioco” che nelle declinazioni in altre lingue (particolarmente il ludus romano e medievale) è stato sempre sinonimo di “rappresentazione”.
C’è qualche esempio di galleria o museo virtuale che ti ha incuriosito particolarmente?
Non voglio fare una graduatoria perché sono tanti e alcuni di questi sono stati ben presentati nel tuo sito. Aggiungo giusto qualche caso esemplare che mi ha dato soddisfazione. Le visite col Linguaggio Italiano dei Segni al Museo delle Civiltà di Roma e al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari. Il viaggio a 360° nella Casa Azul al Frida Kahlo Museum di Città del Messico. L’esperimento di engagement del Getty Museum che ha invitato il suo pubblico a riprodurre quadri famosi in casa, con risultati decisamente affascinanti.
Com’è il dialogo tra i direttori dei musei e i progettisti di gallerie e musei virtuali?
Si sta intensificando grazie all’utilizzo delle varie piattaforme social che accorciano le distanze e permettono agli interessati di coinvolgersi reciprocamente sulle proprie esigenze. Sono tantissimi i gruppi che parlano di questi temi e c’è quasi sempre un alto livello di dialogo dentro queste esperienze online.