Fabio Fornasari, il virtuale non è metafora
Architetto e museologo, Fabio Fornasari si dedica a costruire dispositivi per mostrare e raccontare storie di valore utilizzando progetti e installazioni museogra>iche, e ambienti di apprendimento. Monta e smonta contenuti per sviluppare l’innovazione sociale. Progetti che hanno una dimensione di relazione: coinvolgono il pubblico all’interno di dinamiche di interazione cognitiva e sensoriale. A fianco di psicologi e pedagogisti sviluppa modelli educativi di frontiera. È ricercatore associato per IRPPS – Istituto di Ricerca per le Popolazione e le Politiche Sociali e altri istituti di ricerca del CNR – Consiglio Nazionale delle Ricerche. È fondatore e Direttore artistico del Museo Tolomeo di Bologna presso l’Istituto dei Ciechi Francesco Cavazza di Bologna. È coautore del Museo del Novecento di Milano e autore del Museo delle Terme di Caracalla. Ultimamente ha curato l’allestimento della mostra Toccare la Bellezza -Maria Montessori e Bruno Munari.
Tutti sappiamo che i musei e le gallerie hanno dei punti di forza che li rendono più intriganti delle versioni virtuali. Gli argomenti sono sempre gli stessi: il tatto, l’atmosfera, l’aura dell’opera d’arte vista dal vero. Che cosa risponderesti per difendere la causa del virtuale?
Ti rispondo con una metafora. Sono in piedi, sul bordo di una piscina, guardo l’acqua. Mi piace guardarla. Improvvisamente cado nell’acqua gelida. Sono qui che leggo la tua domanda, non sono bagnato, non ho bevuto, ma mi resta addosso quel disagio. È il disagio che provo a dover pensare di “difendere la causa del virtuale”. È solo una metafora, la sensorialità è negata, ma nel passato ho fatto esperienza sulla mia epidermide della sensazione di cosa significa cadere nell’acqua gelida di una piscina. Torna tutto alla mente, l’intersensorialità è viva, sento freddo. Quindi il disagio è reale. Alla fine questa è secondo me la migliore difesa. Il virtuale funziona non malgrado la sensazioni della materia ma proprio perché manca quella sensorialità. Perché sia un’esperienza di qualità necessariamente richiede competenze narrative, una capacità di inquadrare e dare corpo a idee che stanno dentro la cultura che ha trovato ormai tante forme per esprimersi. Ci emozioniamo e impariamo per la quasi totalità in stati privazione sensoriale: leggendo sui libri (di carta e digitali), guardando i documentari, film ecc. Un museo virtuale non è mai la negazione di qualcosa di fisico. È una delle possibilità, una delle forme che una idea può assumere. La sensorialità entra in gioco quando e come serve. Virtuale non è privazione sensoriale ma differente organizzazione delle nostre capacità di costruire delle esperienze, che devono sempre essere uniche e irripetibili. Un tempo i pittori da cavalletto dicevano a chi difendeva Marcel Duchamp che loro non dipingevano concetti, idee, ma cose. Duchamp ha portato qualcosa di nuovo e spiazzante che non si interessava di portare avanti teorie e tecniche dell’arte del tempo ma di fissare lo sguardo sulle cose della quotidianità. L’arte di Duchamp non è metafora ma immagine della realtà. Anche il virtuale deve perdere il suo statuto di metafora che gli riconoscevamo oltre dieci anni fa. Rientrando in questo periodo per progetti legati all’educazione a distanza, ho rinunciato al nickname per mettere il mio nome e cognome sopra la testa. Sottolineare la continuità relazionale tra lo stare dentro e fuori il digitale è ora importante. È ora che la virtualità si occupi della realtà perché lì ci sono le ricerche più interessanti. Al tempo la cosa che abbiamo compreso è stata la potenza della comunità. Se ricordi dicevamo che il virtuale era lo spazio che teneva insieme le persone, lo spazio tra le persone. Con i miei progetti del tempo creavo le condizioni non per guardare cose allo schermo ma stare vicini e insieme. L’importanza che per un museo possono avere le differenti comunità che lo attraversano, è stato compreso da poco e sicuramente anche grazie alla dimensione relazionale legata ai social network che è entrata attraverso sezione comunicazione all’interno dei programmi museali.
Attualmente quali sono gli esempi più interessanti in questo campo?
Dipende molto da cosa cerchiamo. Per quanto mi riguarda le cose più interessanti fino ad oggi le abbiamo viste nel videogaming e in alcuni progetti educativi. Ad esempio Minecraft, Fortnite per i primi. Fortnite come sai ha pure progettato uno spazio che mostra la sua stessa storia dall’interno. Per la seconda mi riferisco al progetto edMondo di INDIRE-Istituto Nazionale di Documentazione per l’Innovazione e la Ricerca Educativa. Un mondo virtuale che è pensato per formare docenti e per sviluppare programmi educativi all’interno del virtuale. Personalmente conosco i progetti Edu3D e unAcademy attivi sull’OpenSim Craft. All’interno di unAcademy il progetto di Luciana Mattei e Lorenza Colicigno per laboratori sulla narrazione di Gianni Rodari con l’Istituto Comprensivo “Giuseppe Giuliano” Latina. L’IPSEOA di Vinchiaturo sta realizzando un “Museo immateriale del gusto” tra gli artefici ricorderai Shellina Winkler, che al tempo esponemmo al Museo di Antropologia di Firenze nell’occasione di Rinascimento virtuale. C’è tanto movimento in corso. Importante è sempre e comunque curare Sono tutti progetti che testimoniano che c’è una reciprocità in corso ora. Il virtuale non è più territorio per la fuga, dove sviluppare progetti spesso vernacolari, ma un luogo dove ci si può incontrare e rispondere a problemi che ci pone la società, come ad esempio potersi sentire meno distanti in questo momento di Covid-19. Come già ho detto: il virtuale è spazio dove le relazioni hanno luogo.
C’è una piattaforma o una tecnologia che trovi più adatta al discorso dell’esposizione virtuale?
Sinceramente no e questo vale sia per il reale che per il virtuale. Lo chef resta chef anche nella più piccola delle cucine: prende ciò che ha a disposizione e lo assembla con gli strumenti che possiede perché sa che la meraviglia la scoprirà il palato, lontano da qualsiasi accidente tecnico. Nel tempo del digitale abbiamo misurato la meraviglia delle prime opere fatte di pochi pixel colorati in movimento. Il limite tecnologico è sempre stato lo spazio per elaborare progetti importanti. Sicuro non puoi pensare di esporre il rinascimento in 42 dpi (42 punti per pollice) per lo studioso dell’arte di quel periodo storico. Ma avrai visto anche tu le esperienze con i pixel degli anni Ottanta sulla Monna Lisa o su altre opere. Lavori che rispondevano alle teorie della Gestalt in chiave post modern. Oggi ci fanno sorridere ma quanto pensiero hanno prodotto? Mi pare che ci sia uno scollamento tra le gallerie e i musei virtuali e quelli reali. In genere sono due cose ben distinte, non c’è un’interazione diretta, almeno in tempo reale tra il museo vero e quello che sta nel web. I musei sono delle istituzioni in continua trasformazione ma spesso sono in ritardo con gli appuntamenti che la società pone a causa di competenze mancanti. Appuntamenti sull’accessibilità non solo fisica ad esempio. Covid-19 ha segnato un solco, chiudendo e distanziando ha creato una soglia dove siamo entrati tutti per cambiare il modo per tenere in piedi le nostre relazioni. I musei hanno compreso l’importanza di avere competenze nell’ambito della comunicazione digitale, nel conoscere le metriche e le grammatiche dei social. Hanno compreso che reale e virtuale sono due forme della stessa idea di museo. Non sono in guerra e non sono idee contrapposte. Sono solo due forme differente di una stessa idea. Un museo che vuole restare legato alla sua comunità oggi non può trascurare una sua forma digitale ed eventualmente una sua forma virtuale, con o senza avatar. Personalmente non vedo distinzione in questo senso. Se c’è ancora tanta diffidenza è per il sapore vernacolare che si vede ancora nei mondi. Un museo reale o virtuale funziona solo se è espressione di una ricerca, se è in continuità con le ricerche del suo tempo o se si preferisce dei suoi tempi (la natura del tempo è molteplice e ambigua).
Sarebbe utile ripensare anche la figura del curatore? Quali competenze dovrebbe avere il curatore di una mostra virtuale?
Il curatore è fondamentale. È la figura che garantisce la continuità della ricerca del museo all’interno di un pensiero museologico. È la figura in grado di comprendere i significati in relazione ai contesti. Deve però possedere le competenze proprie della cultura digitale, comprendere i comportamenti e in particolare che potenzialmente sta dialogando con un pubblico globale .
Ti sei cimentato in progetti di gallerie o musei virtuali ?
Anni fa in Second Life. Per me è stata un’esperienza molto importante proprio sul fronte della comunità. Ero entrato con l’idea di sviluppare progetti inclusivi. Indagai il sistema, la possibilità di costruire un sistema dove sviluppare una coscienza geografica nello spazio virtuale. Questo mi portò a comprendere alcuni aspetti, alcuni comportamenti in relazione alle architetture dell’ambiente. Specialmente in quel tempo l’ambiente era popolato da vere comunità che stavano scoprendo nuove forme di relazione e che ponevano domande all’ambiente. Second Life non era un videogioco: non entravi per vincere una sfida ma per lavorare sulla relazione con un ambiente che creava spazio tra le persone. Al tempo ho cercato di dare corpo alle domande che sentivo in giro, non dare una risposta architettonica ma offrire spazi tra le persone perché si potessero incontrare. Questa è la reciprocità che la cultura digitale ancora oggi chiede di considerare. Stare attenti alle domande delle persone, saperle ascoltare e rispondere con forme museali che ne tengono conto.
Ti risulta che altri architetti che si occupano di musei nel mondo fisico si siano occupati di musei o di gallerie virtuali?
Sinceramente non lo so. Non me ne sono mai troppo interessato perché fino ad ora gli spazi più interessanti li ho visti sviluppati dai game designer più giovani. Forse non c’entra con la domanda ma negli ultimi anni ho partecipato come stakeholder al Rome Video Game Lab a Cinecittà. È molto interessante perché ho avuto occasione di partecipare a B2B con le software house più importanti che si occupano di virtualizzazione dei musei, con e senza avatar. In un paio di giorni si provano tutte le tecnologie utilizzabili. Ho visto cose molto interessanti. In tutti i casi ci sono ancora molti limiti sull’accessibilità dei prodotti. Tieni conto che io sono il direttore di un museo che è stato aperto all’interno dell’Istituto dei Ciechi Cavazza di Bologna, il Museo Tolomeo. Mi hanno chiamato anche per questo motivo. Si devono ancora creare le condizioni perché i prodotti virtuali siano pronti ad accogliere le regole del Design for All o dell’Universal Design. Le tecnologie utilizzate sono spesso usate prevalentemente nella dimensione del visivo. La parte audio è molto meno avanzata in quanto le software house hanno a disposizione una capacità di calcolo che non gli permette di sviluppare entrambe le modalità in maniera perfetta. Un audio perfetto, intendo un’audio 4D che ti permette un orientamento spaziale che ti permette di muoverti in uno spazio di suoni spazializzati non si accompagna mai a una altrettanto capace visualizzazione degli ambienti. Così come l’olfatto è in grado di darti tante informazioni che il gusto non riesce a restituirti sulla qualità dei cibi, così l’udito è in grado di far generare in te capacità di visualizzazione di immagini mentali di cose che accadono intorno a te. Dalle neuroscienze sappiamo che anche il suono stimola i neuroni specchio. Questo permetterebbe lo sviluppo di una serie di video giochi e quindi virtualizzazioni non solo di musei ma di opere d’arte nel loro complesso spaziale. Questa è la potenza del progettare esperienze non solo edifici. Questa è la frontiera che ho affrontato e vorrei affrontare come architetto: dare spazio alle esperienze, pensare a una architettura che sostiene ma che non limita. Per questo da tempo lavoro a fianco di pedagisti, psicologi ed educatori. Questo ho esercitato a lungo nella palestra di Second Life. Un viaggio che si compì in ottocento giorni oggi chiuso.
Quali caratteristiche dovrebbe avere, secondo te, un museo o una galleria virtuale all’avanguardia?
Forse qua e là te l’ho già detto. Innanzitutto deve essere espressione di una ricerca che incontra il pensiero scientifico e che trova nella cultura le parole giuste per raccontarsi e nella pedagogia quelle attitudini che lo rendono educativo. Non deve occuparsi del bello ma deve cercare sempre quel senso di meraviglia che accompagna la mente quando si sorprende a scoprire qualcosa di nuovo, quando comprende e fa un passo in avanti Il museo deve sempre fare e raccogliere domande: alle collezioni, alle comunità, alla società e alle istituzioni. Se un museo virtuale è solo espressione di una frustrazione, di una mancanza di occasioni non funziona perché nel prendere forma assumerà forma proprio quella frustrazione che si vuole superare. Come dimostra già molta architettura costruita delle nostre città reali ha questo tipo di problema. Un museo virtuale deve essere un invito alla meraviglia.