Collectors Dialogues/Il souvenir, la presenza e il museo da collezione
Musei e gallerie virtuali hanno un grosso problema: non sono collezionabili. Non c’è niente che li riporti in qualche modo all’idea di collezione. E purtroppo chi visita un museo quell’idera in testa ce l’ha. Tanti visitano i musei per compilare un loro catalogo mentale di opere, per esempio per dire di aver visto la Gioconda, oppure tutti quadri di Bosch, o tutti i Vermeer, o quello che volete voi. In genere si porta a casa il catalogo, che è la testimonianza di essere stati lì, e ci si fa delle foto davanti alle opere. adesso, con Instagram, si sono moltiplicati i selfie nei musei, le attestazioni collezionabili della propria presenza in un luogo deputato a conservare le collezioni. Invece, se vado in un museo virtuale di quelli a 360 gradi cosa posso fare per raccontare che sono stato lì? Posso fare uno screenshot? Un po’ poco. Posso farmi un selfie davanti al mio computer nel momento in cui si vede il museo virtuale? Forse. Comunque manca sempre l’elemento della collezionabilità in presenza, che è fondamentale. Manca l’esperienza di collezionare se stessi nel mondo delle collezioni attraverso le fotografie ricordo. E poi mancano le cartoline, mancano i cataloghi, mancano i museum shop. Tutte cose che forse si potrebbero aggiungere in un sito di e-commerce. Forse. Resta comunque il grosso problema che il museo virtuale sta da un’altra parte, e io, visitatore, non posso condividerlo con la mia presenza. Questo per dire che bisogna lavorare ancora un po’ sulla questione.
Se pensiamo agli antenati del visore, alle fotografie stereoscopiche, possiamo notare due cose importanti: la prima è che ai primi del ‘900 l’esperienza della visione stereoscopica si poteva fare per strada, e non solo a casa propria: c’erano dei venditori di immagini stereoscopiche con il loro armamentario, una specie di teatrino (l’equivalente di allora del computer) dove si poteva fare una prima esperienza di quel tipo di strumenti di visione.
Un’esperienza che si faceva fuori, per strada, con la gente, in una condivisione delle immagini. E poi, seconda cosa importante, quelle immagini si potevano comprare. Quindi ci si poteva portare a casa un pezzo di quell’ideale galleria virtuale, e la si poteva collezionare. Nell’assoluta semplicità di quell’esperienza prendeva forma il tanto agognato cortocircuito tra reale e virtuale che si cerca oggi con difficoltà. In quel caso c’era un rapporto diretto tra mondo esterno (la strada), mondo virtuale (le fotografie stereoscopiche), il mondo interno (casa propria, dove si riguardavano le foto con lo stereoscopio) e il mondo fittizio della collezione, dato che tutte quelle foto venivano poi riposte in eleganti cofanetti.